Entrare in azienda è un atto di migrazione.

“Non c’era all’origine “un progetto di vita”, non avevo deciso che sarebbe andata così. Diventare un nomade globale. Un outsider assetato di familiarità. Un globalista in cerca di radici.” (Federico Rampini – Oceano di mezzo – Ed. Laterza)

L’entrare in azienda è come un atto di migrazione, si migra verso una nuova cultura.

Quando entro in una nuova realtà, sono io lo straniero, non importa quanto cosmopolita io sia, sono sempre i clan-locali a comandare e a me il compito di adattarmi, di ricercare radici.

Diventare almeno in parte uno di loro “per capire meglio” è un esercizio che non si può evitare di fare.

Quanto meno individualisti si è, nel senso di essere portatori di una identità definita, tanto più è semplice entrare in contatto con l’altro. L’altro non diventa alterità, ma è il mio simile: un’altra persona.

La scala di similitudine / differenza entra in azione prima ancora di incontrare la barriera dei gruppi identitari se sono attivi tutti i nostri sensi e il non verbale e il para-verbale agiscono a nostro favore.

Noi siamo fatti di relazioni di similitudine e differenza, non siamo una sostanza identica a se stessa, siamo “codividui” e condividiamo microbioti con la natura che ci circonda, questo ci mette in relazione. (rif. F. Remotti – Somiglianze: una via per la convivenza – ed. Tempi Nuovi)

Nella relazione le differenze sono sempre rispetto al singolo, sono i miei neuroni specchio che intervengono a mettere in rilievo ciò in cui mi specchio, riconoscendomi o no.

Ci sono aspetti non verbali e paraverbali, aspetti verbali non linguistici, da considerare nel primo impatto comunicativo con l’alterità o meglio il simile/dissimile da noi. Come decodificare bene le grammatiche culturali, quale ‘software mentale’ caricare e in quale momento? (rif. Paolo E. Balboni, Fabio Caon – La comunicazione interculturale – ed Marsilio).

Prima bisogna occuparsi dei sintomi e dell’informazione che può essere involontaria, solo dopo arriva il messaggio e la comunicazione.

L’accento, ad esempio, aspetto verbale, è uno dei primi segnali sonori percepiti come diversità e passibile di scherni o ‘imbarazzismi’.

Ci sono poi i tratti caratterizzanti il volto, ad esempio il rossore e poi occhio al luogo, inteso come setting fisico, scena culturale.

Attraversando un nuovo spazio aziendale ci si mette in ascolto e si cerca di scorgere se ci sono affinità con luoghi noti da cui si è lontani al momento: un suono di sottofondo, un colore predominante, un odore riconoscibile… si procede per sottrazione, prima di poter identificare il nuovo.

Bisogna essere sfacciati per superare il primo empasse, quello che porterà all’empatia? Empatia deriva dal termine tedesco “Einfühlung”, sentirsi.

Di certo, per sentirsi, bisogna badare agli scopi e agli atteggiamenti psicologici (sarcasmo, ironia, rispetto, ammirazione, diffidenza, vergogna ecc. emergono nei linguaggi non verbali)

I messaggi extralinguistici spesso vengono sottovalutati o volontariamente messi da parte perché forieri di gaffe, per concentrarsi su un linguaggio di mezzo (es. il bad English). Ma prima di pronunciare ‘A’ tanta acqua (leggi eventi comunicativi) è già passata sotto i ponti (leggi riti e norme sociali).

La comunicazione interculturale in azienda non si può insegnare, quello che si può fare è insegnare l’osservazione, un processo di lifelong e lifewide learning. Ovvero non si può insegnare la competenza, ma un modello di competenza che avvantaggi l’Intelligenza interculturale. Mai come in questo caso vale la massima che noi impariamo sbagliando!

Nel formulare il modello, va ricordato che noi siamo prima visti (per l’80%) e poi ascoltati ecco perché i codici non verbali nell’incontro vengono prima.

Un popolo che utilizza molto il linguaggio non verbale è quello Indiano, d’altronde in una Nazione dove ci sono 22 lingue riconosciute ufficialmente e altre 400 parlate correntemente, non è difficile immaginarlo.

Per portare degli esempi dobbiamo però distinguere tra linguaggio non verbale che si avvale di emblemi e linguaggio non verbale che accompagna quello verbale. Gli emblemi sono simbolici, parlano da se, veicolano un messaggio anche senza parole. In India, il linguaggio non verbale è codificato negli antichi testi sanscriti che prescrivono norme relative ai vari aspetti della vita umana, ed anche presente nelle grammatiche, per questo a differenza che in alte culture diventa emblematico oltre che performativo. (rif. L’importanza dei linguaggi non verbali nella cultura indiana – Giovanna Gallo)

Nello scambio interculturale vengono alla luce i valori. Il confine tra cultura e civiltà, tra scelte culturali e ragioni civili fino ad arrivare alla propria lista di valori, viene costantemente messo alla prova.

E’ necessario, dicevo, saper osservare e in particolare osservare prima la propria cultura mentre si osserva quella altrui e spesso prendere decisioni valoriali anche inconsapevoli nel dialogo interculturale che si svolge in tempo reale.

Dal punto di vista personale, per aumentare la realtà interculturale, dobbiamo passare attraverso sei fasi di crescita personale: rifiuto, difesa, minimizzazione, accettazione, adattamento, integrazione.

Inoltre nella vita reale ci sforziamo costantemente di leggere nella mente dei nostri simili osservandone il linguaggio corporeo. Tutti, ognuno a suo modo, ci occupiamo di lettura del pensiero (James Borg, psicologo del lavoro e consulente aziendale, è specializzato in comunicazione interpersonale – Il Linguaggio del Corpo ed. 2011 Tecniche Nuove). Ricordiamoci anche che falsificare il linguaggio corporeo è pressoché impossibile, esso comunica sentimenti, atteggiamenti ed emozioni lasciando al linguaggio verbale le informazioni.

Nello scambio bidirezionale non verbale, osservando gesti, espressioni facciali e percependo suoni, dobbiamo ricordarci di noi stessi, del nostro etnocentrismo e al contempo percepire empaticamente ciò che manifestano gli altri con il loro corpo.

Sentimenti quali:accettazione e rifiuto; simpatia e antipatia; interesse e noia; verità e menzogna, sono soggetti all’influsso culturale (?!) Si perché i segnali che li veicolano (dal modo di vestire, alla postura, alla distanza spaziale etc…) lo sono.

Ad esempio la “sensazione” di diffidenza è un buon segnalatore, un antenna per farci domande di interpretazione culturale, essa ha origine dall’incoerenza dei messaggi che riceviamo: avvertiamo che i segnali verbali ci dicono cose diverse da quelle che percepiamo dai segnali non verbali.

Uno dei pionieri nello studio del linguaggio corporeo fu, negli anni ’50 del secolo scorso, l’antropologo americano Ray Birdwhistell. Fu lui a coniare il termine “cinesica” – dal gre­co kinesis, “movimento” – per definire la comunicazione che avviene attraverso la mimica e la gestualità.

Ci sono gesti illustratori, simbolici, indicatori dello stato emotivo, gesti di adattamento, gesti regolatori.

“Due persone che, incontrandosi, si guardano negli occhi, si trovano immediatamente in una condizione di conflitto. Desiderano guardarsi e al contempo distogliere lo sguardo. Da ciò deriva una serie complessa di movimenti oculari di arretramento e avvicinamento”. (Desmond Morris)

“C’era tutto un discorso in quel silenzio, tutto un parlare in ogni muto gesto.” (William Shakespeare)

“Non dimenticate mai che: la mente formula un pensiero; il pensiero genera un’emozione; l’emozione trapela attraverso il linguaggio non verbale; leggendo il linguaggio non verbale cogliamo l’emozione; ed ecco che, come per magia, leggiamo nella mente altrui” (James Borg, Il Linguaggio del Corpo) e migriamo nella sua cultura.

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