Day1 – 2/10/2017 dal mio diario etnografico…la partenza
<<Come si fa a registrare gli odori e a trasmetterli?
Nella hall del Terminal 1 dell’aeroporto di Addis Abeba gli odori di un risto’ sono intensi e hanno colpito le mie narici così come ho girato l’angolo delle rampe di scale che davano l’accesso alla hall.
Tutto intorno shops di souvenirs e chaise longue dove solo uomini sembrano beatamente in attesa.
Sto arrivando, a Juba, si, è oramai vero, ma ancora non ci credo. Ho la bocca impastata dal lungo volo e un nodo alla gola di nostalgia di casa… e devo ancora iniziare! Mi dico.
Provo a leggere ma i miei pensieri vanno a probabili o improbabili attività che mi attendono.
Come mi presenterò? Che stile darò alle mie comunicazioni a distanza? Da dove inizierò a poter lasciare un piccolo segno?
E se avessero bisogno di una ritinteggiata alle pareti potrei organizzare un laboratorio creativo di pittura con i bambini e figli dei colleghi… cosa ci vuole a riempire le pareti di cartoline colorate, frutto dei loro sogni e luoghi desiderati?… ma poi troverò una sede curata come quella che ho visto a Roma e a Bruxelles? dove si respira un area di tranquillità sebbene sulle porte a certi piani si legga “Emergency room” e dentro un team silenzioso in piena negoziazione operativa.
Ieri un incontro con un signore sulla settantina, di Monaco, uomo distinto ma alla mamo che il giorno dopo sarebbe volato a Kartum, mi rallegra il pomeriggio all’aeroporto di Bruxelles. Siamo entrambi alle prese con il ritiro delle valige da box automatici che accolgono solo moneta da 1€ o 50 centesimi. Serve assistenza e attendiamo spazientiti, ci spalleggiamo nelle risate sdrammatizzanti per non pensare che si sta facendo tardi per il check in.
Frammenti, forse seguirò questo stile nel prosieguo di questo diario, nell’intento di fissare cosa ho colto, ho provato e sto ricordando nello scrivere brevemente>>.
Day 2 – 3/10/2017 dal mio diario etnografico…l’arrivo
<<L’arrivo all’aeroporto di Juba merita una nota tutta sua!
Il bielica da 50 posti atterra sulla corta pista dopo aver sorvolato distese piatte di un verde muschio misto a verde prato, e dopo aver sorvolato lo spazio aereo dell’atterraggio e girato per un paio di volte sulla città i cui bassi tetti, molti di lamiera, rifrangevano la luce del sole.
A terra l’affollamento impedisce un rapido atterraggio e il capitano dopo l’annuncio di attesa, è evidentemente, abile negoziatore, perché riesce a fare solo due giri sulla città.
Sulla scaletta l’impatto è l’area densa e calda, immediatamente dopo la lunga fila di militari delle UN in riga sul perimetro dello spazio di atterraggio come un cordone.
Vi passiamo accanto sbarcati per dirigerci nella fila del controllo visti, ed ecco che siamo in uno spazio di circa 20, massimo 30 metri quadrati, tutti affollati in tre file, i 50 passeggeri più un numero non precisato di addetti dell’aeroporto, polizia doganale e cittadini locali in cerca di clienti.
Una massa informe in uno spazio altrettanto informe, caratterizzato da un pavimento di tavole sbilenche di legno, un container che funge da ufficio dell’immigrazione e un area più o meno circoscritta con passamani dove intanto sbarcavano le valige su un nastro trasportatore umano.
Si perché i portantini dall’aereo facevano una catena, mente le guardie cercavano di verificare che chi prendeva i bagagli avesse almeno il biglietto in mano tra gli avventori che si facevano spazio convincendo gli arrivati storditi di riuscire loro meglio degli stessi a farsi largo e recuperare le valige.
Uno in “cuollo a nato”, si direbbe a Napoli.
Identificate e prese (le valige), solo un minimo di respiro per raggiungere un varco di uscita che ecco una nuova fila orizzontale.
Tutti affastellati per prendere posto, come ad un bancone del bar, a servire la propria valigia aperta alle autorità in piedi su una pedana, in alto rispetto a noi spettatori.
Loro ne verificano il contenuto e con un gessetto segnano che il collo è ok.
Non dovrei divulgarlo ma sono stati i 10 dollari meglio spesi per aver anche incluso una telefonata con telefono locale per cercare i referenti dell’organizzazione, che non vedevo nella folla all’arrivo ed essere accompagnata con le valige al più lontano parcheggio pieno di fuoristrada e van in attesa, tra cui anche il mio.
Sarà durata in tutto 40 minuti ma che sequenza scenica! peccato non aver potuto scattare foto, cosa assolutamente vietata>>.
Il creare lo spazio per l’altro dal se’, inizia dal prendere distanza.
L’antropologo quando entra in un ‘altrove osservazionale’ è tenuto a scrivere per aprire gli occhi.
In un certo qual senso si deve ricostruire la catena dell’apprendimento al contrario per disimparare, ripercorrendo a ritroso l’uso dei sensi in una sorta di riallineamento lento: dalla scrittura alla lettura, alla parola, all’ascolto al all’olfatto al tatto.
Dal diario ho tratto le note della partenza e dell’arrivo come momenti liminari, sono i confini di tempo e spazio che ci poniamo per costruire un contesto e permetterci di iniziare a perderci dentro lo stesso, scoprendo significati, per poi muovere questi confini, poterli quasi eliminare o almeno alleggerirli.
In questo esercizio, continuamente si realizza un equilibrio tra un noi culturalmente connotato, dove le credenze e i valori hanno un forte peso, e l’altro, è lo straniero.
E’ in questo momento che noi sentiamo di essere ‘venuti da un altro paese’ (venuti, verbo che indica un avvicinamento e una voglia di prossimità e paese, sostantivo che indica un territorio a se, quasi un ‘isola’. Ecco che i marziali siamo noi!).
Dopo 12 mesi in South Sudan di attività come operatore umanitario, ho provato a riassumere gli insegnamenti culturali, quelli che hanno inciso sulla mia gestione di manager. E’ questo un elenco di ‘lessons learned’ mai troppo finito che meriterebbe un intero libro a se:
- ci si chiama màma e pàpa, reciprocamente in segno di rispetto
- i bambini possono partecipare alle riunioni con il capo missione
- allattare all’aeroporto non è un tabù
- il colletto della camicia messo in buon ordine, è un gesto di cura e attenzione diretta al dettaglio e d’educazione
- la sedia girata e lo sguardo non diretto dei colleghi in relazione ai propri interlocutori è un segno di umiltà e rispetto
- la volatilità del contesto accelera e rende quasi ininfluente (in maniera contro intuitiva) la percezione della velocità del cambiamento
- La percezione nel perimetro di sicurezza e cosa è esterno rispetto alla nostra zona di attenzione, agisce nel cambiamento dei confini di realtà.
- l’importanza dei pilastri sicurezza, feedback e fiducia per un organizzazione positiva del lavoro si rafforzano in contesti di sviluppo esacerbati dalla scarsità di accesso alle risorse
- la perdita del contatto con la persona nel flusso intenso di turnover è un fatto
- la serietà e la ristrettezza nel parlare in nome e per conto dell’organizzazione è un fatto inequivocabile
- la lentezza nel ragionare, quando viene rispettata, dà adito allo scorrere di storie realmente interessanti (esempio nei colloqui di recruitment)
- hanno unito le persone: il campionato mondiale di calcio, l’eclissi di luna, l’evacuazione forzata, la voglia di essere selezionati per un training; hanno diviso le persone: l’appartenenza a una o l’altra associazione dell’organizzazione stessa; l’abitudine legata ad una diversa scelta alimentare, la pratica o meno di uno sport.